I QUESITO: Riforma del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il Consiglio superiore della magistratura (CSM) è l’organo di autogoverno dei magistrati.
La sua funzione è, di fatto, quella di governare la magistratura ordinaria, sia essa penale che civile. In questo senso, controlla, gestisce e predispone le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti e le promozioni dei magistrati e provvede anche ad applicare loro eventuali sanzioni disciplinari.
Oltre ai membri di diritto (Presidente della Repubblica, Presidente della Suprema Corte di Cassazione e Procuratore Generale presso la stessa Corte) i suoi componenti, “sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”.
Ebbene, il quesito referendario si propone proprio di modificare il procedimento relativo alla candidatura e alla elezione dei magistrati in seno al CSM.
Attualmente, un magistrato che aspiri ad essere eletto al CSM deve presentare la sua candidatura “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a 25 non superiore a 50.”
Tale sistema impone, dunque, al magistrato candidato di ottenere l’appoggio di una corrente interna del CSM. Senza il sostegno di quest’ultima, infatti, sarebbe praticamente impossibile per il singolo magistrato presentare la sua candidatura.
È del tutto evidente che si tratta di un “Sistema” che rafforza le correnti anche a discapito delle capacità e delle competenze del singolo.
Le correnti sono diventate oramai i “partiti” dei magistrati, intervenendo per favorire l’assegnazione di incarichi ai suoi componenti, decidendo i trasferimenti e le nuove destinazioni. Si muovono, insomma, in un’ottica di promozione del gruppo, attraverso una logica spartitoria e consociativa che coinvolge anche gli altri poteri dello Stato.
Con il sì al referendum, tutti i magistrati in servizio possono proporsi come membri del CSM presentando semplicemente la loro candidatura, senza dover scendere a patti con nessuna corrente per ricevere in cambio le firme necessarie.
Tale cambiamento colpirebbe duramente sia il “correntismo” che il condizionamento della politica nella magistratura (e viceversa).
II QUESITO: Equa valutazione dei magistrati.
Il procedimento di valutazione dei magistrati – a scadenza quadriennale – ha ad oggetto l’indipendenza, l’imparzialità e l’equilibrio, nonché la capacità, l’impegno, la diligenza e la laboriosità del singolo togato.
Esso viene effettuato dal CSM, sulla base di valutazioni espresse anche dal Consiglio giudiziario del distretto in cui lo stesso magistrato presta servizio.
Tale Consiglio è composto anche da avvocati e professori universitari in materie giuridiche, ma solamente i magistrati (che compongono i 2/3 del consesso) hanno diritto di voto.
A decidere, dunque, sono solamente i componenti appartenenti alla magistratura.
Tale procedura crea una situazione assolutamente paradossale: la valutazione del magistrato viene effettuata da altro magistrato. Ciò realizza una indebita sovrapposizione tra “controllore” e “controllato” che rende poco attendibili le valutazioni dei magistrati, favorendo la logica corporativa.
Con il sì al referendum si consente a tutta la componente laica del Consiglio giudiziario (avvocati e professori universitari) di partecipare attivamente ai procedimenti di valutazione dei magistrati, garantendo giudizi equi, imparziali ed oggettivi.
III QUESITO: Separazione delle carriere.
Quando riceve una notizia di reato, il pubblico ministero è obbligato ad esercitare l’azione penale.
Con l’attuale sistema accusatorio, il P.M. è parte processuale che rappresenta la pubblica accusa, mentre i giudici, sin dalla fase delle indagini, dovrebbero essere terzi rispetto alle parti.
Nonostante la netta diversità di ruoli e funzioni tra gli organi requirenti e quelli giudicanti, però, il concorso con cui si accede alla carriera di magistrato è unico, così come unico è il CSM che decide della carriera stessa.
La possibilità, da parte dei magistrati, di ricoprire indistintamente, anche più volte, i ruoli di giudicanti e quelli di requirenti e di alternarsi nelle diverse funzioni, genera una preoccupante contiguità tra Procura e Corte.
Non solo. Tale situazione produce, di fatto, una maggiore predisposizione dei giudici a prestare attenzione alle tesi dell’accusa piuttosto che a quelli della difesa.
Ciò mette a rischio il principio del “giusto processo”, sancito dall’art. 111 della Costituzione, che prevede la parità effettiva e sostanziale di accusa e difesa davanti a un giudice terzo.
Tra le Democrazie più sviluppate, soltanto in Italia esiste l’unicità della carriera in magistratura.
Gli ordinamenti giudiziari dei più importanti paesi occidentali, infatti, prevedono tutti percorsi divisi.
Con il sì al referendum, il magistrato deve scegliere, sin dall’inizio della carriera, quale funzione intende espletare: se quella giudicante oppure quella requirente.
Si avrà la possibilità di modificare una volta soltanto la funzione, e, con l’istituzione di due diversi CSM, si attenuerà il rischio di pericolosi conflitti di interesse che, in passato, hanno dato luogo a vere e proprie persecuzioni contro cittadini innocenti.
IV QUESITO: Limiti agli abusi della custodia cautelare.
Le misure cautelari consistono in provvedimenti provvisori e immediatamente esecutivi che vengono disposti dall’autorità giudiziaria ogniqualvolta si ravvisi il pericolo che durante le indagini preliminari o nel corso del processo – stante la apparente fondatezza della tesi accusatoria – possano verificarsi la fuga, l’inquinamento delle prove ovvero la commissione del medesimo o di un più grave reato.
La ratio sottesa alle stesse è, dunque, quella di garantire l’effettività della giurisdizione e della decisione finale che potrebbero essere messe a rischio dalle lunghe tempistiche della procedura, nonché di tutelare l’ordine pubblico assicurando alla giustizia il soggetto.
Negli anni, tuttavia, tali misure, soprattutto quelle custodiali, hanno conosciuto gravi abusi, documentati dalla grande quantità di richieste di indennizzo per ingiusta detenzione, poi accolte dalle Corti di Appello.
Tanti sono stati i soggetti che, dopo aver patito lunghi periodi di detenzione cautelare, sono stati assolti con formula piena all’esito del processo.
La custodia cautelare, vale a dire la detenzione in carcere prima della sentenza di condanna, si è trasformata, nel corso degli anni, da istituto con funzione prettamente cautelare a vera e propria forma anticipatoria della pena, con evidente violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, sancito dalla Costituzione.
Numerose donne e uomini hanno dovuto subire l’umiliazione del carcere prima di un processo; prima di una sentenza.
A tanti è stata distrutta la vita, senza possibilità di ricostruirla, finanche a seguito della assoluzione dal fatto-reato contestato.
Con il sì al referendum si circoscrive il ricorso alla custodia cautelare in carcere solo e soltanto in presenza del pericolo di inquinamento probatorio o di fuga, nonché qualora si commettano gravi delitti con uso di armi, di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata.
Si cancella, altresì, la possibilità di procedere alla privazione della libertà in ragione di una possibile e non concreta “reiterazione del medesimo reato” di cui all’art. 274 c.p.p.; esigenza cautelare, quest’ultima, utilizzata di frequente nei provvedimenti cautelari, senza mai, però, essere supportata da elementi concreti ed attuali, idonei alla sua sussistenza.
V QUESITO: Abolizione del Decreto Severino.
Il D. Lgs. n. 235 del 31 dicembre 2012 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190) (c.d. Decreto Severino) è stato adottato dopo le rilevazioni effettuate dall’UE e dall’OCSE sull’impatto della corruzione nei diversi paesi e, soprattutto, dopo che l’Italia è risultata essere il terzo paese OSCE più corrotto, con un fenomeno che ha danneggiato la penisola per 60 miliardi di euro l’anno e la stessa Europa sull’ 1% del Pil.
Tale decreto ha previsto l’incandidabilità, la ineleggibilità e la decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, per i consiglieri regionali, per i sindaci e per gli amministratori locali, in caso di condanna.
Ha, altresì, stabilito la sospensione (fino ad un massimo di 18 mesi) di una carica comunale, regionale e parlamentare, in caso di condanna – anche non definitiva – addirittura quando questa sia avvenuta dopo la nomina.
Ebbene, non v’è chi non veda come il Decreto Severino non abbia risolto il problema della corruzione.
Anzi. Ha determinato soltanto gravi intrusioni nella vita politica degli amministratori della cosa pubblica.
Nella stragrande maggioranza dei casi in cui la legge è stata applicata contro sindaci e amministratori locali, infatti, il pubblico ufficiale è stato sospeso, costretto alle dimissioni o, comunque, danneggiato, salvo poi essere definitivamente assolto.
Con il sì al referendum viene abrogato il decreto, abolendo, di fatto, l’automatismo riguardo alla incandidabilità, ineleggibilità e decadenza degli amministratori pubblici e lasciando al giudice la decisione, caso per caso, se comminare all’amministratore, oltre alla sanzione penale, anche la sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, determinandone la relativa durata.